lunedì 17 settembre 2012

Mangiarsi il pianeta con una bistecca?


La Banca Mondiale, una delle istituzioni specializzate dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, comprende a sua volta due istituzioni internazionali: la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS) e l'Agenzia Internazionale per lo Sviluppo (AID o IDA), create per lottare contro la povertà e per organizzare aiuti e finanziamenti agli stati in difficoltà. In un recente rapporto di quest’ultima istituzione si afferma che la attuale produzione mondiale di vegetali potrebbe sfamare oltre 11 miliardi di persone, con una quota di calorie più che sufficiente per una vita attiva oltre che sana.
A parte la questione sulla sostenibilità di un mondo popolato da 11 miliardi di esseri umani, purtoppo una parte significatica di questa produzione di vegetali è da sempre destinata all’allevamento degli animali per la produzione di carne e derivati, con il risultato di gravi sperequazioni nella distribuzione delle risorse che contribuiscono a causare fame e malnutrizione per circa 2 miliardi di persone. 
Il quadro attuale vede una crescita globale del consumo di carne, il che comporta conseguenze non solo per le popolazioni umane ma un aggravamento della salute degli ecosistemi della Terra e un aumento delle emissioni di gas climalteranti che derivano dalle attività agricole.
Dal punto di vista nutrizionale, un ettaro di terra destinato all’allevamento bovino produce mediamente un venticinquesimo delle proteine che si potrebbero ottenere con la coltivazione della soia. Per ottenere un chilo di carne è necessario consumare circa dodici chili di cereali. Ai quali vanno aggiunti centomila litri di acqua per l’indotto di produzione, più le emissioni di gas serra dovute alle deiezioni animali e alla deforestazione per creare nuovi pascoli.
Circa il 75% delle nuove malattie che affliggono il genere umano dal 1999 al 2009 originano negli animali e nei prodotti derivati da animali, secono le analisi e le stime della FAO dedicate alla zootecnia intensiva, che è il modello maggiormente perseguito in tutto il mondo.
La zootecnica intensiva  produce un alto livello di rifiuti, una straordinario consumo di acqua e suolo, un impoverimento generale della biodiversità e contribuisce al cambiamento climatico  con il 18% delle emissioni globali di gas serra.
La FAO e l’ONU hanno sin dal 2009 dichiarato che solo con una corretta alimentazione vegetariana si potrà salvare il pianeta dai disastri della fame, oltre che dall’obesità e dalle altre patologie legate ad una alimentazione troppo ricca di carne, e contribuire alla diminuizione dei gas climalteranti.

domenica 16 settembre 2012

Via libera al ddl “salva suolo”


Venerdì 14 settembre il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che intende porre un limite all’avanzata della cementificazione e proteggere il suolo agricolo come elemento di cornice ambientale e paesaggistica del Paese.
Il premier Monti ha addirittura parlato del tema importante dell’agricoltura e della preservazione dei suoli fertili come tema strategico per coniugare tutela e sviluppo, rammaricandosi di non avere inserito un tale provvedimento definendolo <<risolutivo di molti problemi della società italiana>> nel famoso decreto “Salva Italia”, <<perché ha molto a che vedere con la salvezza dell’Italia concreta>>.
In 40 anni il terreno agricolo ha perso 5 milioni d’ettari (la somma di Lombardia, Emilia Romagna e Liguria: il 70% è stato abbandonato mentre il restante milione e mezzo d’ettari (un’intera Calabria) è stato urbanizzato in maniera non sostenibile con gravi conseguenze sull’equilibrio idrogeologico e sul paesaggio.
Al 2012, la superficie urbanizzata è pari al 6,7% del territorio nazionale (in pianura padana si arriva al 16,4%). La tendenza attuale è in ogni caso un incremento della superficie impermeabile.
Il ddl prevede:
  • Una soglia massima da stabilirsi a livello nazionale e regionale da destinare a superficie agricola edificabile.
  • La creazione di un comitato ministeriale per il monitoraggio del consumo di suolo su tutto il territorio nazionale.
  • Di impedire agli enti locali di utilizzare i proventi delle concessioni edilizie per finanziare le spese correnti.
  • Di impedire ai terreni agricoli che hanno usufruito d’aiuti pubblici il cambio di destinazione d’uso per almeno 5 anni.
  • Di favorire il recupero degli edifici rurali mediante manutenzione, ristrutturazione e restauro tramite finanziamenti.
La filosofia generale è quella di garantire un equilibrio tra zone edificate e aree agricole, ponendo un limite massimo al consumo di suolo e stimolando il riutilizzo delle zone già urbanizzate.
Ora inizia l’iter legislativo, che purtroppo assai difficilmente potrà entro la fine della legislatura. Le varie associazioni ambientaliste e per la difesa del territorio (si veda per esempio l’intervento di Carlo Petrini su Repubblica del 15 settembre scorso) stanno promuovendo iniziative e proposte di miglioramento del testo. In ogni caso, il prossimo Governo, non potrà ignorarlo.


Questo sito/blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto non viene aggiornato con cadenza periodica né è da considerarsi un mezzo di informazione o un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001.
Condensiamo la storia della Terra di quattro miliardi di anni in sei giorni.
Il nostro pianeta è nato lunedì alle ore zero.
La vita comincia a mezzanotte di mercoledì e si evolve nei tre giorni seguenti.
Sabato alle ore 16 compaiono i grandi rettili che si estinguono cinque ore più tardi, alle nove di sera.
L'uomo appare soltanto sabato sera a mezzanotte meno tre minuti. La nascita di Cristo avviene un quarto di secondo prima di mezzanotte. Manca un quarantesimo di secondo quando inizia la rivoluzione induistriale.
In questo momento siamo alla mezzanotte di sabato, circondati da persone convinte che ciò che fanno da un quarantesimo di secondo possa durare per sempre.


David Brower, ambientalista e alpinista

sabato 15 settembre 2012

Introduzione all’ecologia profonda

Innanzi tutto bisogna definire cosa si intende distinguendo ecologia superficiale ed ecologia profonda (shallow e deep ecology).
La distinzione fu coniata da Arne Naess (foto) nel 1972: per ecologia superficiale si intende un tipo di ambientalismo che si occupa principalmente dei problemi di inquinamento, dell’esaurimento delle risorse, della salute e della ricchezza degli abitanti dei paesi sviluppati, interessandosi di vari aspetti della società consumista in maniera riparativa, predisponendo forme di preservazionismo e conservazionismo ambientali dal punto di vista dell’interesse di benessere della popolazione umana e non mettendo sostanzialmente in discussione l’assetto economico, sociale e tecnologico della civiltà occidentale globalizzata, ispirato ad un sostanziale antropocentrismo tecnocratico.
L’ecologia profonda (deep ecology) invece è un movimento filosofico-sociale (più che un preciso sistema filosofico in senso accademico) che trae ispirazione dalla scienza dell’ecologia sebbene abbia contenuti non derivabili direttamente da essa o da altre scienze, la cui essenza sta nel porsi domande più profonde (deeper questions). È evidente, infatti, che la scienza ecologica da sola non può risolvere i problemi ambientali, poiché la scienza è capace solo di riconoscere un fenomeno, non di valutarlo: si tratta di trasformare il pensiero ecologico in una ecosofia; sofia in greco significa “saggezza” e sta ad indicare il rapporto della scienza con l’etica, le priorità di valore, le norme e la pratica. La differenza rispetto all’ecologia superficiale sta nel voler mettere in discussione tutte quelle prassi, politiche, valori che sono alla base della crisi ecologica generata da un particolare modo di relazionarsi dell’uomo con la natura.
L’attuale prassi dell’uomo nei confronti dell’ecosfera, secondo la deep ecology, non ha alla base una solida visione del mondo (filosofica o religiosa) ma soltanto ben radicati modi di produzione e di consumo. Si potrebbero rintracciare in qualsiasi filosofia o religione del passato parole di pesante condanna per l’epoca attuale: esse hanno ricercato la grandezza spirituale (qualitativa) e non materiale (qualitativa), e non avrebbero considerato la sfera economica quale fonte di valori ultimi per le nazioni, la società, i singoli.
Per Naess, non si tratta tanto di opporsi ad una particolare articolata filosofia, ma piuttosto al suo contrario: alla totale assenza di pensiero. Pertanto, basterebbe soltanto iniziare a interrogarsi in merito al perché dell’attuale atteggiamento dell’uomo nei confronti dell’ecosfera, e indagare circa i presupposti dello stile di vita contemporaneo perché molte persone (di varia estrazione sociale e culturale), che ora li appoggiano per mancanza di riflessione o consapevolezza, si trovassero d’accordo con le posizioni espresse dall’ ecologia profonda.
Il movimento dell’ecologia profonda non fa altro che cercare di chiarire i presupposti fondamentali che stanno alla base dell’approccio economico dominante in termini di priorità di valore, filosofia e religione: nel movimento superficiale le discussione e il dibattito si fermano molto prima! Il problema della società occidentale è quello di aver trasformato in maniera occulta i mezzi per realizzare la qualità della vita (tecnica, economia, lavoro) in fini. Si tratta di riappropriarsi dei veri fini, tenendo ben presente che ogni decisione in merito ai fatti è sempre innervata da precise scelte di valore e che ogni scelta di carattere utilitaristico deve essere sempre messa in relazione ai fini ultimi da perseguire.
Il movimento dell’ ecologia profonda ha un carattere pluralistico e comprende tutte quelle ecosofie i cui presupposti ultimi sono compatibili con una piattaforma comune che mette in discussione le prassi, le politiche, i valori a fondamento dell’attuale crisi ecologica e che promuove un cambiamento sociale in conformità a valori e norme conciliabili con le condizioni di vita nell’ecosfera.

La piattaforma, definita nel 1984 da Naess e Gorge Sessions e più volte aggiornata è la seguente:
  1. il fiorire della vita umana e non umana ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umana è indipendente dall’utilità che queste possono avere per gli scopi umani.
  2. la ricchezza e la diversità delle forme di vita sulla Terra, che comprende le culture umane, ha valore intrinseco.
  3. gli esseri umani non hanno il diritto di ridurre questa ricchezza e questa diversità se non per soddisfare bisogni vitali
  4. il fiorire della vita umana e delle diverse culture è compatibile con una sostanziale diminuzione della popolazione umana
  5. l’attuale interferenza umana nel mondo non umano è eccessiva, e la situazione sta peggiorando
  6. i punti precedenti indicano che sono necessari dei cambiamenti nel modo prevalente in cui finora gli uomini si sono comportati nei confronti della terra nel suo insieme. Le trasformazioni dovranno riguardare principalmente, le strutture politiche, sociali, tecnologiche, economiche ed ideologiche.
  7. Il cambiamento ideologico nei paesi ricchi dovrà consistere soprattutto nell’accresciuta capacità di apprezzare la qualità della vita piuttosto che un alto tenore materiale di vita, creando in questo modo i presupposti per una condizione mondiale di sviluppo ecologicamente sostenibile.
  8. Coloro che sottoscrivono i punti precedenti, s’impegnano direttamente o indirettamente a cercare di realizzare le trasformazioni necessarie attraverso mezzi non violenti.

Dalla piattaforma sopra citata discendono, in conformità a determinate premesse ultime, i punti di vista generali e quindi le decisioni concrete in situazioni specifiche. Da ciò deriva che gli ecologisti profondi non hanno tutti le stesse idee sulle questioni più importanti, possono anzi possedere differenti concezioni del mondo, ma hanno modi di pensare comuni sul valore intrinseco della natura e della necessità di un profondo rinnovamento nella società e un radicale riorientamento della civiltà occidentale, anche se questi possono anch’essi derivare da convinzioni diverse e forse incompatibili.
La ricchezza dell’ecologia profonda sta appunto nel suo essere ispirata ad una visione totale (total view)  e nel non trattarsi di un’ ideologia monolitica, di un credo definito. In generale tutte le prospettive filosofiche (p. esempio: sensiocentrismo, biocentrismo, olismo, transpersonalismo ecc…) ricadenti nell’ambito dell’ecologia profonda sono di carattere non antropocentrico.
In ultima analisi, esse vogliono proporre una nuova visione del mondo come reazione agli evidenti limiti connessi al concetto stesso di sviluppo economico quantitativo legato alla pervasiva manipolazione del mondo e degli ecosistemi.
Questa nuova prospettiva “ecocentrica” è sempre più necessaria in quanto è sempre più evidente che la crisi economica attuale non è altro che una manifestazione laterale del notevole peggioramento della situazione generale del pianeta causata da un modello di sviluppo non più sostenibile.      

Questo sito/blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto non viene aggiornato con cadenza periodica né è da considerarsi un mezzo di informazione o un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001.

martedì 8 maggio 2012

Verso una città antispecista – per una nuova etica urbana


In un recente libro di Stefano Boeri (Anticittà, Laterza 2011) alcune interessanti riflessioni circa i nuovi paradigmi che dovrebbero ispirare le trasformazioni urbane in Europa nel prossimo futuro.
Negli ultimi due capitoli in particolare vengono delineati i principi di un’etica urbana non antropocentrica (p. 108) come strumento per il governo della città e di contrasto alle tendenze dissipative, di omologazione e disintegrazione dello spazio-città (da cui l’Anticittà del titolo).
La riflessione parte dalla constatazione che le tre sfere di paesaggio (che si possono per sommi capi individuare con i termini città, campagna e natura) sono per larga parte reciprocamente compromesse ossia manca un confine netto che le separi e le definisca per contrapposizione. La sfera urbana è esplosa in mille frammenti inglobando parti di territorio coltivato e lacerti di spazi “naturali”. Il paesaggio della città contemporanea ha caratteri ibridi, bordi continuamente ripiegati su se stessi, territori “contaminati”: l’idea di recuperare l’unità perduta, la forma originaria è sia pateticamente nostalgica che irrealizzabile nella pratica.
A questo confuso amalgama di paesaggi indifferenti, sovrapposti e inglobati l’uno nell’altro si aggiunga l’incertezza del futuro legata alla crisi in atto (crisi del modello di sviluppo oltre che di ciclo economico), della mancanza di ambizioni progettuali di grande respiro, della mancanza di un coordinamento degli impulsi individualistici “dal basso”.
Insomma, la sorte dell’Europa nella geopolitica planetaria si gioca anche a livello del territorio, come sistema di città: gli spazi dotati di una condizione transitoria possono aiutare a introdurre varietà funzionale e biodiversità organica nella matrice storica dello spazio europeo (p. 107).
Ma per fare questo è necessario che considerazioni di ordine etico/filosofico entrino a fare parte del bagaglio di competenze di chi si occupa di progettare le trasformazioni del territorio abitato. Le emergenze ambientali, l’incremento demografico, l’urbanizzazione estensiva, la distruzione delle risorse naturali, i cambiamenti climatici etc… tutte questo ci impone di considerare un modello di pensiero che si occupi non solo delle esigenze della nostra specie ma piuttosto parta dalla considerazione delle esigenze di protezione e sviluppo delle altre specie animali e vegetali, in una visione più ampia del futuro del pianeta che abitiamo.
Un modello di pensiero non antropocentrico, ispirato forse ad un’etica tendenzialmente antispecista (anche se di antispecismo non si fa esplicito riferimento nel libro), che non abbandona l’uomo ma lo posiziona in un ordine in cui non è più al centro o sul piedistallo, pur essendo investito di maggiori responsabilità e doveri, in relazione alle conseguenze delle azioni di cui è capace, verso sé stesso e il pianeta.
Siamo tuttavia d’accordo con l’autore che la condizione umana è il vero (se non il primo)  banco di prova di questa nuova etica. La metropoli contemporanea è infatti il luogo della esacerbazione delle energie che spingono alla catastrofe ecologica e al suicidio di specie, il teatro degli squilibri e delle ingiustizie sociali che attraversano la popolazione umana (p. 109). Tuttavia riflettendo sulla convivenza e coabitazione nello stesso territorio di specie diverse, l’obiettivo ambizioso è quello di ridefinire e mutare i rapporti umani intraspecifici.
L’autore elenca anche tre possibili dispositivi attraverso i quali questa nuova etica potrebbe attivarsi. Li elenchiamo brevemente, rimandando alla lettura del testo: la rinaturalizzazione dei territori urbanizzati (demineralizzazione del costruito e creazione di surplus energetici attraverso le energie rinnovabili), l’incremento di biodiversità animale con la coabitazione di specie diverse, e una biopolitica urbana delle relazioni umane che superi le usurate antinomie (centro-periferia, pubblico-privato, etc…) per governare le popolazioni urbane in maniera evolutiva e non statica, per esempio considerando i fenomeni migratori come generatori di vincoli e opportunità  e non come fattori di rischio sociale.
L’emergenza ambientale è ormai cosi avanzata da non essere risolvibile solo tramite politiche centralizzate e settoriali: l’idea di costruire edifici “verdi” non è certo nuova, le possibilità tecniche sono ormai ampiamente consolidate; nuova è la responsabilità individuale di ripensare il rapporto tra città e natura, in cui la componente “sostenibile” (tecnologia o economica) diventi catalizzatore di nuova socialità, incontro e prossimità per i cittadini, per far nascere nuovi luoghi urbani condivisi.
L’alternativa alla città estensiva e frammentata che conosciamo è una città rigenerativa, una città che cresce su sé stessa, che opera per densificazione piuttosto che per estensione (p. 137), una modalità non nuova nella storia europea. In questo ritorno alla “tradizione” della città europea, anche l’agricoltura deve cambiare:  i terreni agricoli periurbani dovranno svolgere un ruolo cruciale per l’economia urbana, diventando spazi attivi e vivibili, in grado di produrre diverse coltivazioni di qualità e di ospitare la più ampia biodiversità (p.138).
In conclusione, riteniamo particolarmente interessanti le riflessioni di Boeri nel libro sopra citato (di cui consigliamo vivamente la lettura) in quanto gettano un ponte tra i discorsi sulla sostenibilità urbana e ambientale e le filosofie o movimenti di pensiero ambientalista più “avanzati” e “trasversali” quali quello antispecista, proponendo un vero e proprio mutamento di paradigma non solo delle discipline urbane ma della coscienza, della politica, dell’estetica, dell’azione pubblica e privata in Europa.


Questo sito/blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto non viene aggiornato con cadenza periodica né è da considerarsi un mezzo di informazione o un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001.

mercoledì 25 aprile 2012

Riqualificazione energetica e mercato delle costruzioni


A febbraio 2012 la produzione nel settore delle costruzioni sono crollate del 20,3% rispetto allo stesso mese del 2011, fonti ISTAT, ma il crollo è del 23% se si considerano le correzioni del calendario.
Nella crisi profonda, la tendenza nell’edilizia italiana è però chiara: sempre meno costruzioni e sempre più ristrutturazioni, come evidenziato nel rapporto CRESME pubblicato lo scorso novembre “Il mercato delle costruzioni 2011-2015”: gli investimenti destinati alle nuove costruzioni sono circa la metà di quelli destinati a manutenzioni straordinario e ordinarie.
In percentuale, le nuove costruzioni, in termini di investimenti pesano circa il 37% del globale; tale quota depurata del peso degli interventi destinati alle energie rinnovabili e al fotovoltaico scende al 31%. Un andamento molto chiaro che testimonia che è già in atto un nuovo ciclo edilizio.
Le stime di Legambiente dicono che in Italia la cementificazione nell’ultimo quindicennio è avanzata al ritmo di 500 chilometri quadrati all’anno, portando a 2,35 milioni di ettari la superficie urbanizzata, pari al 7,6% del territorio nazionale (Puglia e Molise messi insieme). Difficile quindi pensare che si potesse andare avanti con questi ritmi, non solo in termini puramente quantitativi ma anche di salvaguardia del territorio e di vivibilità/fruibilità degli spazi costruiti.
Al contrario, gli spazi per il recupero e la riqualificazione sono enormi.
Il patrimonio edilizio italiano, secondo il censimento ISTAT del 2001, consiste in 12.8 milioni di edifici, di cui l’85,2% (10,9 milioni) utilizzato a scopi abitativi, con oltre 26.5 milioni di abitazioni. Di queste, più del 70% è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale, in particolare negli anni del boom economico. Il 40% circa del patrimonio edilizio esistente ha più di 50 anni e la necessità di conservarlo ha comportato una notevole crescita del mercato del recupero edilizio, sin dagli anni ottanta.
Si può ipotizzare che il settore del recupero continuerà a crescere nei prossimi anni, sino ad arrivare all’80% del mercato. Si avrà anche una trasformazione delle tipologie di interventi ed opere richieste, con una riduzione delle opere murarie tradizionali a vantaggio delle opere impiantistiche e dell’utilizzo di tecnologie leggere “a secco”.
Riqualificare un immobile oggi significa essenzialmente renderlo efficiente dal punto di vista dei consumi. Oggi, il 40% del totale di energia che utilizziamo è utilizzata per far funzionare gli edifici; di questa, il 68% serve per il riscaldamento, il 18% per gli usi elettrici, il 9% per l’ACS e il 5% per cucinare: si tratta di un enorme bacino di potenziali risparmi che sono al centro dei Piani energetici europeo e nazionale, i quali affidano agli interventi sugli edifici (interventi sul’involucro e sugli impianti di riscaldamento) il 50% dell’obiettivo al 2016 e al 2020.
Il comparto edile può tornare a crescere solo con la riqualificazione, le demolizione e ricostruzione  del patrimonio esistente, attraverso visioni strategiche di retrofit urbano improntate alla sostenibilità – ambientale, economica, sociale - e di medio-lungo termine, stimolando investimenti e innovazione, combinando le potenzialità offerte dalla ricerca e dall’uso di nuovi materiali e tecnologie con il principio della tutela del territorio e dell’ambiente.

Questo sito/blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto non viene aggiornato con cadenza periodica né è da considerarsi un mezzo di informazione o un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001.

domenica 22 gennaio 2012

Il futuro delle città e le mappe digitali

Dal 2008 stiamo assistendo ad una novità nella gestione delle crisi internazionali. Il fenomeno del “crisis mapping”, ossia delle mappe digitali aperte e accessibili a tutti,  ha cambiato le modalità degli interventi umanitari. Con le informazioni raccolte attraverso social network, sms, satelliti vengono prodotte in tempo reale o quasi da network come Crisis Mappers le mappe delle zone colpite da disastri naturali, conflitti sociali o crisi umanitarie, che serviranno per portare i primi soccorsi e gestire l’emergenza.

Questi network sono composti da volontari (programmatori, geografi, esperti di sistemi GIS o di web, traduttori), i quali però devono poter contare sul lavoro di molte persone non esperte che forniscono le informazioni, anche semplici video e foto, che poi vengono localizzate su mappe sofisticate come quelle satellitari  o più semplici come quelle di Google o OpenStreetMap.
Queste metodologie sono state sperimentate per la prima volta in Kenya nel 2008 durante le elezioni per controllare le eventuali violenze ai seggi, poi ad Haiti dopo il terremoto del 2010, dove la mappa i Crisi Mappers divenne la fonte più utilizzata dalle organizzazione tradizionali del soccorso umanitario (Onu e Croce Rossa fra gli altri) durante il primo mese, fino alla Libia del 2011, quando l’Onu ha direttamente chiesto a CrisisMappers una mappa in tempo reale sulle condizioni dei civili.
Salta subito agli occhi che oltre all’impiego dei sistemi informatici georeferenziati, è indispensabile la funzione di micro-tasking del singolo, che sommata a grande scala permette acquisizione di una grande mole di informazioni altrimenti irrealizzabile in tempi brevi.

Se usciamo dal quadro dell’emergenza, e pensiamo alle nostre città e allo loro quotidiana gestione o funzionamento, risulta evidente l’importanza del fenomeno.
Se provassimo a considerare il cittadino come un sensore di informazioni che possono essere inviate in tempo reale ad un collettore pubblico, attraverso gli smartphone o semplici cellulari, potremmo costruire uno strumento di gestione della città: del traffico stradale, del trasporto collettivo, delle reti di servizi, delle aree di degrado. Non solo in caso di emergenza (una bufera di neve, una alluvione), ma nella pratica quotidiana le mappe dinamiche potranno servire ad una conoscenza partecipata del territorio.
Dopo la gestione quotidiana, crediamo possa venire il tempo della programmazione e della prefigurazione della città: gli strumenti informatici partecipativi saranno la base principale dei piani urbanistici del futuro.

Questo sito/blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto non viene aggiornato con cadenza periodica né è da considerarsi un mezzo di informazione o un prodotto editoriale ai sensi della legge n.62/2001.

sabato 21 gennaio 2012

La frase del giorno

"Un pianeta con sette miliardi di individui è un disastro.
Un pianeta di sette miliardi di persone consapevoli delle proprie interconnessioni invece può andare."





Douglas Coupland, scrittore